Novecento

Qualche giorno fa mi sono imbattuto in una citazione di Gabriele Vacis che per chi non lo conoscesse, è il regista della prima messa in scena di Novecento di Alessandro Baricco, quella interpretata da Eugenio Allegri. Insomma leggendo quella citazione, mi sono ritrovato pienamente nel messaggio del regista che diceva: “il monologo è la più grande esperienza di solitudine cui un attore possa andare incontro”.

Manco a farlo apposta, pochi giorni prima avevo interpretato Novecento a Roma al CRAL della BNL e l’esibizione che a me non era piaciuta per niente, nonostante il giudizio di altri, mi aveva fatto sentire proprio quella terribile sensazione di cui parlava Gabriele Vacis: la solitudine.

Si è in scena, davanti a decine di persone e stranamente ci si sente soli! Probabilmente, quella solitudine, la si avverte ancor di più quando chi ti ascolta non ti da la sensazione di partecipare alle sensazioni che vorresti trasmettergli. Ecco, questa era la sensazione di quel giorno a Roma… cavolo, sembrava non mi stessero ascoltando. Sembrava che le mie parole da sole non bastassero a catturare l’attenzione del pubblico. Forse è stata colpa di un paio di blocchi di memoria che mi hanno causato non poco imbarazzo o forse chissà non era la mia serata. Continua a leggere

Vi siete mai arrabbiati con Dio?

Io no! O meglio, non mi era mai successo, fino a stasera. Il pezzo che stasera dovevo recitare ha suscitato in me forti emozioni; troppo forti. La colpa è di Guglielmo che come sempre ascolto forse troppo: “mi raccomando, tira fuori tutta la rabbia che hai! Non
pensare ai ‘virtuosismi’, devi essere incazzato con Dio”.

Io incazzato con Dio? Io che mentre provavo a casa per imparare il pezzo a memoria, dicevo “Zio” pur di “non pronunciare il nome di Dio invano”. Insomma, si, sono molto credente, anche se come tanti non praticante, ma non è questo il punto. Continua a leggere

Filizeppo e i fiori magici

Filizeppo - Copertina libroRaccontare fiabe è uno dei migliori strumenti che abbiamo per comunicare in modo chiaro e diretto con i nostri bambini. Lo spaventapasseri Filizeppo e il suo amico passero Fienolino, rappresentano in queste quattro fiabe il mondo adulto e il mondo bambino cercando di lasciare al piccolo lettore chiari messaggi sui valori dell’amicizia, la lealtà, il coraggio e l’amore. I guadagni provenienti da questo libro saranno interamente devoluti all’Associazione Futuro ONLUS di Pomezia (Roma).

E-book gratuito

Diario di un condottiero

Il tempo scandisce periodi ben precisi della nostra esistenza, talmente precisi che a volte sembra di viverli e ricordarli come se appartenenti a nostre vite precedenti.
In una mia vita precedente ad esempio, ricordo di esser stato un condottiero, uno di quelli che sfidano i mari, sbarcano su isole remote e affrontano gli imprevisti e gli eventi senza paura! emhh va beh, proprio senza paura no, ma ricordo un episodio che da solo rappresenta e racconta tutta la mia vita di condottiero dei mari. Continua a leggere

L’ultimo muro

Vi siete mai chiesti con chi avrete a che fare per l’ultima volta? L’ultima volta! esatto, sto parlando proprio dell’ultima; quella estrema. Di chi per l’ultima volta avrà bisogno il vostro corpo? un prete?… un becchino?… no… nessuno di questi! l’ultimo, ma proprio l’ultimo, molto probabilmente sarà un semplice muratore.

Me ne accorsi quel giorno, quando nel silenzio più totale un semplice muratore tirava su l’ultimo muro, quello che per sempre avrebbe diviso il mio caro nonno da me, da noi, dalla famiglia, dalla sua tanto amata moglie. E mentre con la cucchiaia e la calce, il semplice muratore tumulava il loculo, a forza io mi tenevo in gola un urlo : “fallo ad arte quel muro!” e immaginavo mio nonno, un semplice muratore, che scuoteva la testa, come spesso faceva quando vedeva un altro usare la cucchiaia, e sapevo benissimo che se fosse stato lì, glie l’avrebbe strappata di mano per fargli vedere lui come si faceva.

Mio nonno era uno tosto! ma nel vero senso della parola, le mani indurite dalla calce potevano graffiarti con una semplice carezza. Ma era anche tosto quando si trattava di lavorare. Le cose non si dovevano fare bene, si dovevano fare semplicemente come diceva lui. Però, come tutte le persone vere, quelle fatte di cuore e sudore, quando gli chiedevi qualcosa non sapeva tirarsi indietro. Così spesso a casa mio padre, mio zio o altri parenti gli chiedevano piccoli lavoretti di muratura, e lui, oltre a non dire mai di no, sfoggiava in quei lavori la sua arte. E quando dico arte, non mi riferisco al solo mestiere, ma ad un certo lato artistico con il quale realizzava le sue opere. Negli anni ho spesso aiutato mio nonno nei suoi lavori e inevitabilmente da lui ho imparato molte cose riuscendo perfino a realizzare delle murature, però mi dicevo: “un giorno quando mi farò casa, gli chiederò di aiutarmi a sistemarla” perchè volevo anche a casa mia qualche espressione della sua arte.

Poi arrivò quel giorno, avevo una casa tutta mia e dovevo sistemarla e come di solito viene fatto per le ristrutturazioni, cominciai dalla recinzione. Avevo allargato il cancello che però aveva inevitabilmente richiesto la demolizione di un muretto che bisognava rifare. Chiamai mio nonno, felice finalmente di coinvolgerlo nei lavori. Ma quando gli chiesi se poteva rifarmi quel muro, rimasi deluso dalla reazione. Non disse di no certo, come al solito non si tirò indietro, ma quello spirito che da sempre lo animava, si era sopito nella stanchezza degli anni. Quei callarelli erano diventati più pesanti e sempre più lenti erano quei movimenti ripetitivi della cucchiaia che attacca la calce che a me tanto piacevano.

La cosa più triste del passare degli anni è quella repulsione involontaria che abbiamo della vecchiaia. Tendiamo a non vederci vecchi, non vogliamo vederci vecchi e per non vederci vecchi non vediamo nemmeno invecchiare i nostri cari.

Mio nonno fece quel muro, l’ultimo muro, muro che ancora oggi è lì, ed io capii che da quel muro in poi, avrei dovuto cavarmela da solo.

L’ultimo muro è quello che chiude per sempre i nostri cari nei nostri ricordi e dietro il mio muro, mio nonno è ancora lì e continua incredibilmente a segnarmi la strada.

Volevo solo essere bravo

Mi ci sono voluti trent’anni per capirlo. Anni di incertezze, riflessioni e un mucchio enorme di delusioni. Spesso mi domandavo “ma gli altri cosa pensano di me?” ah ma è chiaro… non me lo domando solo io, tutti ce lo domandiamo. Ma per anni non solo quello che traspariva dalle persone, ma anche quello che palesemente mi veniva detto e che riguardava la mia persona, insomma tutto quello che gli altri pensavano di me, era sbagliato o meglio inesatto.

La cosa buffa o triste o decidete voi come interpretarla, era che io lo sapevo. Sapevo che gli altri non capivano chi ero e cosa volevo veramente, ma me ne fregavo. Ero semplicemente concentrato verso un unico ed inarrivabile obiettivo.

Forse era sbagliato anche quello che io pensavo di me stesso, e tutto questo solo perché mi mancava di arrivare a capire un piccolo particolare. Piccolo da comprendere ma talmente importante e significativo da segnare trenta anni di esistenza.

La cosa buona è che grazie a questo piccolo particolare, ho potuto crescere e comprendere molte cose. Prima e sopra di tutto il fatto che “Siamo quello che vogliamo essere”. Sono pochi i limiti che abbiamo rispetto a quelli che in realtà ci imponiamo noi stessi. La maggior parte delle cose che non riusciamo a fare o ad essere derivano dalla sfiducia in noi stessi, dal non avere degli obiettivi, da non crederci noi per primi ancor prima di convincere gli altri. Retorica?

In trenta anni ho avuto tante di quelle ambizioni, progetti o obiettivi che quando ora lo racconto sembra che parli di tante persone diverse. Chi mi ascolta raccontare o magari somma le varie cose che pian piano conosce di me, passa per due fasi: nella prima inizia a pensare che sono un “cazzaro”, ma continua comunque ad ascoltarmi; nella seconda invece mi guarda con occhi incuriositi ma ancora un po increduli.

Ma perché mi son dato così tanto da fare? Un piccolo genio? O semplicemente uno che non ha mai trovato la propria strada?

La risposta l’ho trovata dopo trenta anni: Volevo solo essere bravo! Anzi ad essere precisi volevo solo “sentirmi” dire bravo. E non dalle persone che negli anni mi hanno ammirato, che più volte invano me lo hanno detto. Volevo sentirmi dire bravo almeno una volta, una volta sola, da un’unica persona: mio padre.

Per anni mi sono sentito dire: “Luca sa fare di tutto, ma ha un solo difetto. Inizia le cose e ci si dedica con passione, ma quando è riuscito a farle, e a farle bene, si stanca e passa a qualc’altra cosa”. Dico io “Porco diavolo… ma ve lo domandavate perchè?”

Trenta anni!

C’è voluta una psicoterapeuta a nemmeno tante ore di sedute, e quando l’ho scoperto, anzi quando mi sono scoperto, ho provato una grande tristezza. Di colpo ho rimesso in discussione tutta la mia vita. E mi sentivo come se qualcuno me l’avesse rubata, e quel qualcuno era mio padre. Non mi rimaneva da fare altro che affrontare la situazione. E non fu facile. Dovevo affrontare mio padre.

E’ normale che un padre sia il primo esempio per un figlio, ma quando hai un padre come il mio, non hai un semplice esempio, che ti fa da faro e ti illumina la strada; hai una montagna che quella strada te la ombra. Il carattere che ha, la vita che ha avuto, i traguardi che ha raggiunto; tutto questo lo ha da sempre ingigantito ai miei occhi ed i giganti si sa, guardano dall’alto.

Ho fatto di tutto per uscire dall’ombra. Ho usato l’arte in ogni sua forma; ho usato la forza, ho usato l’ingegno, ho usato l’abilità manuale: tutto! E non mi arrendevo. Difronte all’indifferenza o alla totale disapprovazione ripartivo con altro, di nuovo, alla ricerca anche di un piccolo e semplice segno d’ammirazione.

La prima volta che lo affrontai, dopo aver capito, dovetti arrestarmi di colpo. Quando dopo poche parole entrai nel discorso e iniziai a fargli capire cosa avevo dentro, lo vidi cambiare d’improvviso. Un genitore che dopo trent’anni si sente dire dal proprio figlio che ha sbagliato per tutta una vita, non può rimanere impassibile. Mi fermai e mi resi conto che forse il problema, ora che era individuato, dovevo risolvermelo da solo. Volevo troppo bene a mio padre per vederlo minimamente soffrire.

Solo qualche anno dopo, in un periodo per me difficile, riaffrontai con lui il discorso ma cambiando il mio tono. A differenza della prima volta dove quasi lo accusai dell’errore, quella volta, nelle lacrime, gli chiesi semplicemente aiuto.

Nonostante il suo carattere forte e la sua figura supponente, mio padre come me ha una grande sensibilità. Certo quella sensibilità negli anni non gli ha permesso di comprendermi, ma probabilmente il suo era un modo di educare voluto. Forse il risultato dell’educazione che lui stesso aveva ricevuto da suo padre. Ancora riecheggia nei miei ricordi la frase che troppo spesso gli sentivo recitare : “I figli vanno accarezzati di notte!”.

Quella volta però, la sua sensibilità, gli permise di comprendere che aveva sbagliato. Dovette passare ancora qualche anno prima che sentissi quel tanto atteso “bravo”, ma nel frattempo il suo comportamento era del tutto cambiato.

Poi arrivò, il “bravo”, inaspettato ma colorito e ben sonante. Ancora ne ricordo il suono, ancora riesco a rivedere la scena. Finalmente quel bambino chiuso in me che per tanti anni ha sofferto e sperato si è acquietato. Da lui, dai suoi infiniti tentativi di sembrare migliorare, di sembrare più bravo, si è plasmato l’uomo, un uomo che vuole essere migliore e che vuole essere più bravo ma per se stesso e per la vita che ora finalmente gli appartiene.

Ti voglio bene papà.

Laudato si, mi Signore, per sora nostra morte corporale

Avete mai visto la morte? L’avete mai vista da vicino? Avete mai avuto la sensazione che indisturbata vi fosse passata accanto? Ho idea che se quella signora si conoscesse bene, avrebbe paura di se stessa, ma purtroppo, lei, si ignora. Sono certo che tutti come me ne hanno paura, anche chi la desidera, anche i duri, i coraggiosi o i temerari, anzi proprio loro sono i primi a tenerla sempre in mente, un chiodo fisso da esorcizzare in ogni loro azione pericolosa, intrepida, estrema.

Poi c’è la gente comune, tutti a darsi da fare quotidianamente per non pensare alla signora, per far finta che non esista. Deve essere così. Sono sicuro che se solo la considerassimo con più rispetto, vivremmo tutti in modo diverso.

Io l’ho vista la morte. Ne ho viste varie facce. L’ho sentita così vicina da pregare, come un condannato che ha i fucili puntati contro. Poi l’ho osservata, mentre di colpo strappava l’anima ad un uomo che avevo appena conosciuto, ed infine l’ho implorata, quando lentamente si portava via una persona a me cara.

Bene, ogni volta che l’ho incontrata, ogni maledetta volta, la signora che tanto temiamo, ha lasciato in me qualcosa di buono, certo anche il dolore nel ricordo, ma nello stesso tempo, la “beffarda”, ha esaltato in me la percezione e il valore delle cose. Il valore dei parenti ad esempio: che non ti mancano mai così tanto, quanto nel momento in cui non ci sono più; il valore del tempo: che inesorabile passa, e sempre più velocemente lo fa per quelli che non lo apprezzano; ed infine il valore della vita e del suo affascinante mistero.

L’ho odiata la morte… quel giorno che l’ho vista rubare l’aria dalla bocca di mia nonna. Lentamente se la portava via… lentamente… ogni suo respiro era sempre più affannato, più affaticato, con quel ritmo, spezzato da una pausa sempre più lunga.

Era lei, sono sicuro, stava lì, seria, tranquilla, faceva il suo lavoro, con freddezza. Mica se ne preoccupava lei di mia nonna, faceva il suo lavoro, come fan tante persone che nella ripetizione, nella routine del proprio mestiere, non pensano nemmeno a quello che fanno.

L’ho osservata da vicino, la morte, quella volta che in crociera sul Reno in Germania guardavo un vecchio che come me stava sulla prua del battello a godersi lo spettacolo. Eravamo seduti sulla stessa panchina, posta proprio sulla punta estrema della prua. Sono sicuro che l’armatore di quel battello l’aveva messa lì per lui quella panchina, tanto era bello godersi da quel punto il risalire del fiume.

Godevamo insieme del vento e del sole sul viso e negli occhi avevamo lo scorrere di uno spettacolo stupendo. Le sue mani erano aggrappate al mancorrente che era posto lungo il bordo del battello e tenendosi contrastava l’ondeggiare della barca. Io, le mie, le avevo adagiate sulla panchina, portandone una dietro la schiena di Dory che era seduta alla mia destra.

Era lì, incantato, il vecchio, con quello sguardo sognante e impassibile, sembrava nemmeno battere ciglio. Io lo avevo notato anche prima, perché quando sentendolo parlare mi accorsi che era tedesco, mi trovai a chiedermi, come facevo quasi sempre: “chissà come ha vissuto l’epoca nazista? Chi era? Che faceva?” era più forte di me. Magari quell’uomo nel suo passato era stato uno dei più spietati soldati delle S.S., o magari era stato l’addetto delle così dette “docce”. Non ne avevo il diritto, lo so, ma non sono mai riuscito ad immaginare nemmeno lontanamente come si può vivere col peso di milioni di anime sulle spalle. Certo, lei, la morte lo sa bene, anzi a pensarci meglio, forse lo ignora totalmente.

Insomma era lì quel vecchio, vicino a me, quando all’improvviso vedo le sue mani allentare la presa e lentamente il suo corpo ondeggiare sempre più pericolosamente verso sinistra. Non compresi da subito cosa stava succedendo, quel viaggio era così bello, così magico.

Poi di colpo, l’urlo di una donna seduta affianco al vecchio spezzò l’incanto. Non so cosa gridò, ma immagino qualcosa tipo: “Papà!”.

Cosa successe a quel vecchio non lo seppi mai, forse il caldo, il peso degli anni. Dory era così spaventata che si alzò di scatto e scappò via, era terrorizzata. Io vedendo il povero vecchio già assistito dalla figlia e da altri parenti, d’istinto, mi preoccupai per Dory e la seguii.

La morte! Se ne frega la morte del Reno, del vento, del sole. Era lì. Pure lei si teneva al mancorrente e aspettava solo quei pochi secondi che mancavano al momento giusto. Fredda e puntuale! Ne un secondo di più ne un secondo di meno.

L’immagine di quel vecchio è rimasta per sempre nei miei ricordi. Spesso, sdrammatizzando, mi son detto che forse non era poi tanto male morire in quel modo, certo era meglio di tanti altri molto più bruschi e dolorosi. Ma quello che più mi lasciò il segno di quella toccante esperienza, fu senza dubbio il lato inaspettato della cosa. La signora ignora cosa facciamo nella vita o a che punto della vita ci troviamo, se ci sono cose in sospeso, se non è il momento giusto, non gliene importa niente. Lei arriva, prende e via.

La prima volta che la incontrai, la signora, è stato in uno dei luoghi che lei più frequenta. Anzi sono sicuro che per quel luogo lei, ha pure il cartellino. Segna l’ora d’entrata e d’uscita.

Tutto successe quando diversi anni fa dovetti subire una piccola operazione chirurgica e fui ricoverato in un ospedale. Avevo poco più di vent’anni. Ero già stato operato e tutto era andato per il meglio, di lì a qualche giorno sarei stato dimesso. Certo ero ancora a letto, ma giusto per il tempo necessario al rimarginarsi dei punti di sutura.

Era sera e probabilmente guardavo qualcosa in tv, quando da fuori il corridoio, si sentì il rumore inconfondibile di una barella che si avvicinava alla mia stanza. Un’ora inusuale per un ricovero, pensai, e immaginai dovesse trattarsi di un’emergenza.

Entrò un infermiere che tolse i fermi all’anta fissa della porta e la aprì dando modo all’altro suo collega di spingere la barella all’interno della stanza. In effetti vicino a me c’era un posto vuoto, non avevo dubbi quindi che da lì a poco avrei avuto un compagno di stanza.

Si trattava di un vecchio… ancora… direte? Già, e paradossalmente… per fortuna!.

Il poveretto aveva appena avuto un incidente con la macchina, si vedeva che era molto scosso, ma pur cercando ferite, tagli o segni evidenti dell’impatto, non vidi niente. Gli infermieri, alzando la voce, probabilmente perché sapevano che il vecchio ci sentiva poco, gli spiegarono che lo avrebbero tenuto in osservazione e che in pochi minuti sarebbero arrivati i suoi parenti.

Era ancora vestito con i suoi panni, trasandati, forse sporchi di lavoro di campagna, ma probabilmente aveva freddo perché si era ficcato sotto le lenzuola. Non ci parlai subito, ho sempre avuto difficoltà nell’approcciare con le persone. Lo osservavo, e mi faceva tenerezza, perché in quello sguardo si vedeva la paura. Non so, ma quel ficcarsi sotto le lenzuola, mi dava come l’idea che si stesse nascondendo o proteggendo. Come un bambino, che sotto la sua piccola capanna di lenzuola crea il suo mondo, dove nessuno può entrare.

Pochi istanti e arrivò un’infermiera, grossa, con due braccia forti di quelle che fanno paura. E non smentì il suo aspetto quando con una voce alta, e non perché il vecchio sentisse poco, ma alta di suo, insomma senza il timore di essere ascoltata dagli altri degenti e alla faccia della riservatezza, chiese al vecchio: “ti devo cambiare. Mi hanno detto che te la sei fatta sotto.” Il vecchio ancora sgomento, grugnì qualcosa con lo stesso tono alto e come a dire “cosa?” . Lei, l’infermiera, per farsi capire bene, quasi scandendo le parole, aggiunse “ti sei pisciato addosso!” il vecchio allora imbarazzato, abbassò il volume della sua voce e gli rispose “ah… si…”. Fu terribile, nessun rispetto, nessun minimo sentimento. Ero atterrito.

Quando l’infermiera finì il suo lavoro con altrettanti modi poco gentili, che non sto qui a descrivere per non sembrare esagerato, mi sentii di dover fare qualcosa. Non ce la facevo a vederlo così, inerme, solo. Quindi feci quello che di solito fan tutte le persone che hanno difficoltà ad approcciare. Esordii timoroso con una frase scontata. “Ha avuto un incidente?” e lui subito, ma lentamente “Si… ma… non ricordo niente… stavo andando a comprare il vino…” pian piano nel suo racconto vago e nelle mie domande scontate, lo vidi cambiare atteggiamento. Non lo so, ma forse in me trovò quella voce amica che dall’incidente fino a quel letto, non era riuscito purtroppo a trovare.

Il tempo passava, e nei discorsi più disparati avevamo ormai preso confidenza, ma nessun parente si era ancora fatto vedere. Era tardi e i nostri argomenti s’erano esauriti. Emilio, così si chiamava, era tornato sotto la sua capanna di lenzuola ed io ero sdraiato su di un fianco, voltato dalla sua parte.

Quello che più mi intristiva di quel vecchio era il fatto che si trovasse solo. Dopo circa tre ore era ancora là e nessuno dei parenti era venuto a prenderlo o a trovarlo. Era solo.

Poi d’un tratto quel che vidi mi tolse il fiato. La capanna di lenzuola del vecchio iniziò a tremare, sempre di più, finché anche il letto tremava e faceva rumore ed io impaurito iniziai a gridare aiuto. Fortunatamente la sala degli infermieri di turno era difronte la mia stanza e in pochi secondi ne arrivarono due. Ero pietrificato. Emilio era supino sul letto, fissava il soffitto e vibrava muto in un tremito pauroso. Non appena gli infermieri arrivati di corsa si avvicinarono al letto, quel tremito cessò di colpo e sentii uno dei due urlare un lungo “noooo!”.

Qualche istante dopo arrivò un altro infermiere che vedendomi mi prese per il braccio e quasi di forza mi portò fuori. L’ultima immagine che ricordo, è quella di uno dei due infermieri che energicamente provava a rianimare Emilio, e lo sguardo di lui, vuoto, a fissare il soffitto.

Fuori, nel corridoio, rimasi immobile in un angolo, sconcertato. Non credevo a quello che era successo, era irreale. Era la prima volta che mi trovavo così vicino alla signora e che la vedevo agire indisturbata e senza nemmeno un briciolo di pietà per quel pover’uomo.

Un embolo, dissero in seguito. Non era tanto per l’embolo e la morte inaspettata che piansi tutta la notte, ma era per la solitudine di quell’uomo, era per la solitudine che lo aveva ucciso ancor più dell’embolo, era per il fatto che per tutta la notte non arrivò nessun parente, era per il fatto che la mattina seguente arrivò un uomo a ritirare i pochi oggetti di Emilio, e non era poi tanto affranto. Quell’uomo, era suo figlio.

Spesso quando si definiscono le cose opposte, tipo il bianco e il nero, o il bello e il brutto, tendiamo a contrapporre la vita alla morte. Ma non è giusto. La morte non è solo la fine della vita. La morte è parte della vita stessa. Forse la nascita si può definire l’opposto della morte. Ma la vita, la comprende la morte, ne è imprescindibile.

Non pensate che io creda di conoscere bene la signora. La temo e la rispetto per quanto le è dovuto. Ma è solo grazie a quegli incontri stampati nella mia memoria, se oggi amo così follemente e con passione questa meravigliosa vita.

Siamo tutti diversamente abili

Mercoledì ore 16:00, avevo appena finito di lavorare, o meglio, ero letteralmente scappato da lavoro senza nemmeno finire le ultime cose. Dovevo andare alle prove dello spettacolo, dovevo correre. Pochi giorni e avrei messo in scena il mio primo spettacolo teatrale. Chi l’avesse mai detto! Su su… via dalla strada… ops… scusi.. insomma, sì, mi sbrigavo ma non correvo… volevo arrivarci alle prove, erano mesi che ci lavoravo… “eh che proprio oggi devo fare l’incidente?” mi sentivo già le voci dire “il destino!… c’aveva lavorato tanto a quello spettacolo…” no, no, io ci volevo arrivare sano e salvo, ci volevo arrivare a quel giorno e tutto sarebbe stato perfetto.

Il cellulare?! chi è che rompe? lo dico sempre io, “Il cellulare deve essere una mia comodità, non una comodità degli altri!” pensai per un attimo di ignorarlo. Troppo spesso mi dico che dovrei ignorarlo, poi vuoi la curiosità, vuoi quel timore di perdere quella telefonata che magari è importante, che magari poi ti penti di aver ignorato, e così lo guardi, il telefonino e pensi: “…vediamo almeno chi è…”.

Massimo!? eppure non ero in ritardo “Pronto… ciao Luca, non venire a casa, vieni in via D’Annunzio… troverai un cancello bianco, mi trovi lì… poi dopo andiamo a casa mia.” Un attimo e capii che si trovava in quel posto di cui parlava spesso, era un’associazione per ragazzi disabili. Mi chiesi perché mi faceva andare lì, ma non me ne preoccupai poi tanto, in fondo ero sempre stato incuriosito dalle sue attività. Continua a leggere