Novecento

Qualche giorno fa mi sono imbattuto in una citazione di Gabriele Vacis che per chi non lo conoscesse, è il regista della prima messa in scena di Novecento di Alessandro Baricco, quella interpretata da Eugenio Allegri. Insomma leggendo quella citazione, mi sono ritrovato pienamente nel messaggio del regista che diceva: “il monologo è la più grande esperienza di solitudine cui un attore possa andare incontro”.

Manco a farlo apposta, pochi giorni prima avevo interpretato Novecento a Roma al CRAL della BNL e l’esibizione che a me non era piaciuta per niente, nonostante il giudizio di altri, mi aveva fatto sentire proprio quella terribile sensazione di cui parlava Gabriele Vacis: la solitudine.

Si è in scena, davanti a decine di persone e stranamente ci si sente soli! Probabilmente, quella solitudine, la si avverte ancor di più quando chi ti ascolta non ti da la sensazione di partecipare alle sensazioni che vorresti trasmettergli. Ecco, questa era la sensazione di quel giorno a Roma… cavolo, sembrava non mi stessero ascoltando. Sembrava che le mie parole da sole non bastassero a catturare l’attenzione del pubblico. Forse è stata colpa di un paio di blocchi di memoria che mi hanno causato non poco imbarazzo o forse chissà non era la mia serata.

Quello spettacolo doveva essere in un certo senso la “prova” per quello più atteso di Pomezia, prova che non era andata per niente bene. Nei venti giorni seguenti, ho studiato il monologo all’inverosimile, ripetendolo da un minimo di una volta, fino ad un massimo di 3 volte al giorno. Volevo essere pronto, non mi volevo permettere nemmeno un piccolo errore.

Venerdì ore 20:00, cinema dei preti. Una signora bionda annuncia che iniziano ad arrivare le persone. “A quest’ora?” penso dentro di me: “manca più di un’ora!”. Poi la signora continua a parlare, rispondendo a qualcuno che probabilmente aveva fatto la mia stessa considerazione: “…lo so è presto, ma ci sono persone sotto chemioterapia”. La mia mente veloce elabora quella frase. Certo, mi dico, la serata è organizzata dall’ANDOS che si occupa di prevenzione al tumore alla mammella. E’ normale che ci sia anche gente colpita in prima persona. Poi però alla mia mente è il cuore che parla, spinto da ricordi e ferite che dopo più di un anno sono ancora fresche.

La chemioterapia è una parola di quelle che a me ricordano le ferite invisibili, quelle che ti rimangono per sempre quando in quel modo perdi i tuoi cari. Non ho resistito, ho pianto, in disparte, in un angolo del teatro. Non volevo che qualcuno mi vedesse, non volevo che qualcuno potesse pensare che magari era la tensione per lo spettacolo.

No! Non era la tensione, era il ricordo, il ricordo di una sera d’estate, quando per la prima volta ho messo in scena Novecento nel giardino di casa mia, di fronte a pochi parenti e tra quelli c’era mio nonno; mio nonno che a fine spettacolo mi avrebbe detto: “Mentre ti guardavo, ti avrei abbracciato mille volte”.

Quella di venerdì è stata la mia venticinquesima replica e per venticinque spettacoli ho sempre pensato che da qualche parte, magari dietro l’ultima fila di sedie, mio nonno fosse lì a guardarmi.

Venerdì ore 20:30, cinema dei preti. Inizia ad affluire un gran numero di persone, tante persone, troppe persone, oltre duecento persone. Inutile dire che non ho mai recitato davanti a così tanta gente. Inizio a pensare: se mi sono sentito solo davanti una trentina di persone, cosa mi succederà stasera?

Venerdì ore 21:00, cinema dei preti. Sono confinato dietro due pannelli di stoffa nera che abbiamo messo per fare le quinte: aspetto. Non ho il coraggio di affacciarmi a vedere quante persone sono li ad aspettare, ma sento un brusio che da solo basta a farmi immaginare cosa c’è la fuori. Poco prima di entrare e cambiarmi nel mio camerino improvvisato, chiacchieravo con la signora bionda e mi sono reso conto che nessuno dei presenti sa cosa sta per vedere, nemmeno la signora bionda che ora, dopo che gli ho spiegato, sembra anche essere perplessa. La cosa bella è che mi ha chiesto “ma fa ridere? Perché qui c’è gente che di lacrime ne ha versate pure troppe”. Bene pure questa!

Venerdì ore 21:15, cinema dei preti. Mi rendo contro che non abbiamo fatto nessun rito propiziatorio, anche se di merda i cavalli che avrebbero portato tutte queste persone ne avrebbero fatta molta! Senza che nessuno mi avesse detto: “ok iniziamo…” sento la musica introduttiva, inizio a contare i secondi oltre i quali dovrò uscire…
23, 24, 25… esco!

Un tappeto di persone mi siede davanti e forse già si starà chiedendo “e gli altri? Quando entrano?”. Ho paura di sentirmi solo, ma stranamente non ho quella sensazione. Inizio a recitare e la gente sembra seguirmi attenta, così fanno pure quelle signore in prima fila e in particolare una che proprio al centro a pochi metri da me, siede su una sedia a rotelle. Dopo appena 5 minuti grido “L’America” e parte il primo applauso, in un punto in cui nelle precedenti dodici repliche non era mai accaduto. La cosa mi fomenta, non mi sento solo, non ho più paura.

Il pubblico mi segue, mi ascolta, ride con me. Una signora in seconda fila si asciuga le lacrime, mentre racconto della morte del vecchio Danny Boodman “Se piangi adesso dopo che farai?” mi chiedo. Vedo anche altre persone, scosse, durante i pezzi più “toccanti”, tutti sembrano farsi trasportare dal racconto. Al centro della terza fila, una donna tiene stretta la mano di uomo che seduto nella fila dietro ogni tanto le carezza dolcemente la guancia, lasciando per tutto lo spettacolo la mano sulla spalla della donna. Mentre recito penso che voglio far divertire queste persone. Voglio farle ridere, almeno per quelle poche scene in cui Baricco ha pensato di sdrammatizzare il racconto.

Arrivano le scene divertenti e finalmente ridono! Nelle mie dodici repliche è successo raramente, forse una o due volte e stasera succede ancora. Ridono!. Il pezzo del quadro che cade, fa saltare letteralmente l’intero cinema. Al grido del mio “FRAAAANNN” parte una risata generale. Apre gli occhi pure un signore seduto in prima fila che per tutto lo spettacolo non capivo se dormisse o se si stesse godendo il monologo ad occhi chiusi. Non mi sento solo, anzi, è come se davanti a me ci fossero persone amiche, persone che conosco da sempre. Magicamente si è instaurato uno strano rapporto tra me e loro, è forse quello che sembra permettermi di parlare direttamente ai loro cuori.

Mi rilasso e allungo le pause, quelle che generano patos. Mi diverte vedere che a quelle pause l’espressione della gente cambia, come a chiederti “continua!! dai su!! ed ora? che succede?”. Sto vivendo una delle esperienze più belle della mia vita, una di quelle che un giorno racconterò certamente a mia figlia.

Arriva il monologo finale. Non mi preoccupo più della gente, anzi so che sto per regalargli la parte più bella di tutto lo spettacolo. La signora della terza fila quella che piangeva già prima, ora è disperata, mi viene voglia di abbracciarla, ma non posso fare nulla.
Sono tanti i volti emozionati che mi fissano e quell’emozione travolge pure me. La mano dell’uomo della quarta fila, ancora poggia su quella della signora seduta davanti a lui. Una bambina seduta sulle gambe della mamma in prima fila, dopo essere stata per quasi tutto lo spettacolo inquieta, ora è calma e mi fissa con lo stesso sguardo della madre. Novecento sta per morire ed il pubblico l’ha capito. Mi alzo dalla sedia e pronuncio le ultime parole di questo magico spettacolo “…è finita questa volta è finita davvero.” Esco.

Venerdì ore 22:30, cinema dei preti. Sono appena uscito, il palco è vuoto, ma lo spettacolo ancora continua negli occhi lucidi delle 240 persone che sono venute a vedermi. Parte un caloroso applauso ed io esco a godermelo, ad abbracciare simbolicamente tutte quelle persone che mi hanno regalato questa splendida esperienza. Ad uno ad uno guardo gli spettatori a cui mi ero affezionato durante lo spettacolo. Ci sono tutti, nessuno si è alzato ed è andato via, come qualche volta ho visto fare in teatro, sono tutti li, nessuno è andato via, nemmeno dopo che sono uscito per la terza volta.

Ringrazio e mi sento imbarazzato da tanto affetto, poi la mia vista va alla prima fila, alla signora sulla sedia a rotelle, alla sua mano che con un’energia eccessiva, plaude sulla mano della ragazza che le siede accanto, forse la figlia. L’altra mano la tiene immobile accanto al corpo, forse inutilizzabile. La signora nemmeno mi guarda, guarda attenta la sua mano, come se volesse colpire per bene la mano della figlia per far più rumore possibile. Ci riesce! Tra gli applausi di oltre duecento persone io sento solo quello. Aspetto che la signora finisca perché vorrei guardarla negli occhi per ringraziarla, ma la sua mano continua a battere senza sosta, allora guardo sua figlia negli occhi e la ringrazio. Lei mi sorride, come ad aver capito che quel grazie non era per lei ma per la signora sulla sedia accanto.

2 pensieri su “Novecento

  1. Se non ricordo male “io c’ero”… ed è tutto vero! Mi sono commosso solo a rileggere 🙂

  2. Si, è proprio di quella volta che ho raccontato… devo dire che rileggendola (prima avevo fatto solo un copia e incolla) mi sono commosso anc’io. Che esperienza!

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