Perche la TARANTA è la malattia e la PIZZICA PIZZICA è la guarigione!

Avete presente quando vi entra in testa un motivo musicale e non riuscite a togliervelo dalla mente e allora vi ritrovate a canticchiare, o a tamburellare con le dita, o peggio ancora a fischiettarlo?

Quando però in testa vi entra una delle tarantelle più antiche: “la pizzica pizzica”, allora il ritmo della vostra giornata… accelera!

Quando mi hanno detto che nel mio paese ci sarebbe stato un gruppo Pugliese che avrebbe suonato delle tarantelle, la mia mente ha subito associato il genere a qualcosa di prettamente popolare, qualcosa che suonava di vecchio già nel nome, qualcosa che mi faceva pensare ai balli paesani, quando da bambino vedevo i miei parenti cimentarsi nel garage di mio zio, a ballare il liscio. E allora via di valzer, di tango, di mazurche. Insomma sono andato in piazza, giusto perché avevo voglia di incontrare i miei amici e non di certo per ascoltare una tarantella.russu-te-sira-il-nuovo-album-degli-alla-bua

Il gruppo è pure arrivato tardi, ma a me interessava poco, visto che qualche mio amico era già arrivato nella piazza. Insomma, grande disinteresse per questo gruppo con un nome alquanto buffo: “Alla Bua”.

Grande disinteresse, fino a quando non hanno tirato fuori gli strumenti e due dei ragazzi, tra cui il cantante, non hanno iniziato a colpire con un gesto particolarissimo dei tamburelli, nemmeno tanto piccoli.

Forse per il suono percussivo, simile a quello di una grancassa di ben più grandi dimensioni, o forse per i campanellini, che risuonavano ai margini del tamburello con un ritmo tutto loro ma che era preciso e adatto a quello ben più forte e martellante, insomma da subito ho capito che stavo per ascoltare qualcosa del tutto inaspettato. Continua a leggere

Quando non c’erano i cellulari

Elisa: papà ma quando eravate piccoli c’erano le cose elettroniche?
Io: molte di meno… i cellulari non c’erano ad esempio
Elisa: mmmhhh e come vi mandavate i messaggi?
Io: Avvicinati a me… (mi accosto al suo orecchio e le dico)… Ti voglio bene Elisa! … ecco, così si faceva.

Condividere la voglia di condividere

Tempo fa con degli amici si parlava di cosa ci piaceva fare nel tempo libero. Premetto, tutti i presenti partecipavano con me ad un laboratorio teatrale, quindi, erano bene o male tutti inclini ad una certa “sensibilità” o se vogliamo ad una certa predisposizione artistica.

Ora, personalmente ho tante passioni che sfociano nell’arte ma una in particolare è quella della scrittura. Scrivere è qualcosa di incredibile. Quando scrivo e mi lascio andare, è come se dessi voce ad un qualcuno dentro di me che è diverso da me. Mi ritrovo moltissime volte a sorprendermi di cosa scrivo e perfino del modo in cui lo scrivo. Agli altri, il decidere se quel che scrivo è interessante o meno, ma per quanto mi riguarda quel che scrivo mi interessa perché fissa in modo indelebile, o quasi, quel che sono veramente, il mio modo di vedere le cose. Così, quando mi leggo, mi trovo a riscoprirmi come nuovo, come se chi ha scritto fosse una persona diversa da me.

Quando è toccato a me quindi, nella discussione con i miei amici, era scontato per me parlare dello “scrivere” quale forma di divertimento e di espressione artistica, ma in particolare e soprattutto quale forma di “condivisione”. Scrivere dovrebbe presupporre che qualcuno poi ti legga, di conseguenza scrivere per me è condividere.

Questo pensavo mentre spiegavo la mia passione, ma d’un tratto più di una persona presente, anzi almeno tre dei presenti, hanno raccontato che anche per loro scrivere era una passione, ma che nessuno avrebbe mai letto quel che avevano scritto, perché mai a nessuno lo avrebbero permesso.

Scrivere solo per se stessi! Scrivere solo per se stessi?????? è poco importante come è finita la discussione, ma oggi ho deciso di scrivere anzi di “condividere la mia voglia di condividere”.

Ma porca puttana, se non condividi quel che scrivi, ovvero quel che pensi, ovvero quello che hai dentro, allora vuol dire che dentro di te c’è qualcuno “totalmente” diverso da te, o meglio dal “te” che gli altri conoscono.

Non mi venite a dire: “si, ma certe cose sono troppo intime” perché la questione è proprio questa: le persone hanno per carattere un diverso livello di intimità ed è proprio per un alto livello d’intimità che non condividono. Ma perché succede questo?

Nessuno vi sta chiedendo di raccontare i particolare scabrosi di quando avete fatto l’amore “per sbaglio” con vostro cugino/a o di quella volta che avete pensato al modo più diabolico di torturare una persona che vi stava sulle palle. Qui si parla di sentimenti! Di quelli positivi!!

Condividete! Date voce al vostro “io interno”! Non lasciatelo solo, rinchiuso dentro di voi, muto e senza la possibilità di esprimersi. E smettetela di fare copia e incolla su facebook di pensieri altrui!!! di leggere e rileggere solo pensieri altrui! Basta ‘co ste massime prese dal sito www.lamassimadelgiorno.it … condividete qualcosa di vostro, qualcosa del vostro io intimo, del vostro io vero!

E’ solo così che lo farete uscire allo scoperto e vi compiacerete nel vedere che, in fondo, lui, è probabilmente più interessante dell’immagine che date di voi stessi!

Sapevo cosa fare

Certi traumi o incubi che per anni ti hanno perseguitato, delle volte, inaspettatamente, tornano alla mente. E’ successo ieri sera quando mio figlio, di ancora 2 anni, durante il cambio del pannolino ha bagnato il letto, il mio letto, la parte su cui dormo. Ora, un letto bagnato di pipì, tu lo puoi anche asciugare, ma per giorni non potrai mai togliere né la macchia che resta sul materasso, né l’odore acre che inevitabilmente ti arriva al naso mentre dormi.

Proprio quell’odore ha risvegliato in me ricordi ormai sopiti. Ho fatto la pipì a letto fino a 12 anni. Già, 12 anni! Inutile star a parlare del come e del perchè, ma sicuramente è importante parlare di cosa lascia quella pipì, di quali macchie indelebili è capace oltre a quelle sul materasso.

Di quel fatto ricordo benissimo diverse cose, tra le quali le umiliazioni verbali, che avrebbero dovuto servire a farmi smettere, oppure il ferro da stiro che mia madre mi faceva passare sul materasso per farlo asciugare… “l’odore” delle esalazioni del ferro da stiro! Poi ricordo i pianti, quelli di notte quando mi svegliavo in un lago giallo, quando per evitare gli “aiuti verbali” da solo ed in silenzio, sapevo già cosa fare.

Come ne sono uscito? Pensate che d’un tratto come niente ho smesso? No… ho smesso grazie ad un prete, l’unico “vero” prete che io abbia mai conosciuto. Quando si trattò in 1° media di andare a fare un campo scuola di una settimana, i miei con grande nonchalance raccontarono, davanti a me, che sarebbe stato un problema per me andare. Il caro Don Luigi allora fece una cosa semplicissima, ma era la più stupida e banale che bisognava fare… affrontare il “problema” come un “non problema”. Non vi sto a raccontare i dettagli ma in nemmeno un mese smisi di usare il ferro da stiro!

Qualche anno dopo ormai più che ventenne, Don Luigi che non vedevo da diverso tempo, ma con il quale mi sentivo abbastanza spesso, mi invitò a fare da assistente in un campo scuola di bambini di 10 anni. Un campo scuola presso la stessa località di diversi anni prima. Accettai, perchè fare per gli altri è bello, accettai perchè fare per il mio amico era bello, accettai perchè la diversa prospettiva in cui mi mettevo mi entusiasmava.

Perchè parlo del campo scuola? Perchè una notte mentre dormivo in una delle stanze insieme ai bambini, mi sono sentito tirare la maglietta, era Giacomo un bambino molto timido che dormiva nell’angolo della stanza. Con voce spenta ma chiara mi disse “mi sono bagnato”. Forse, qualcun altro a quella frase, gli avrebbe magari chiesto “con che?” ma io sapevo benissimo cos’era successo. Nel tempo di quelle tre parole sono tornato indietro di 10 anni. Io sapevo cosa fare.

Rassicurai Giacomo, gli dissi che non doveva preoccuparsi di niente, poi tolsi il lenzuolo di sotto, rovesciai il materasso, gli feci togliere il pigiama bagnato e in pochi secondi lo vidi nuovamente accucciato nel suo letto. La mattina seguente andai io stesso a lavare il lenzuolo facendolo poi asciugare al sole, ovviamente di nascosto da tutti i suoi compagni. Quello fu l’unico episodio durante quei giorni in cui Giacomo fece la pipì a letto.

C’è chi incontra preti pedofili, chi invece angeli custodi. La vita ci mette continuamente alla prova e quando vuole come niente ci toglie tutto, ma anche di fronte alle sue avversità, un amico, l’amore, l’amicizia ci possono far riscoprire un mondo migliore.

Sade, opera contra naturam

Mi ci son volute ore di riflessione per decifrare quello che in me ha lasciato lo spettacolo “SADE opera contra naturam”. Aveva ragione un mio amico attore, quando un giorno mi disse “ricorda… dal giorno che inizierai a recitare non sarai mai più un semplice spettatore”. Vorrei però iniziare da molto più lontano.

Nel tempo ho maturato l’idea che ci siano due modi diversi d’andare a teatro. Abbiamo infatti la possibilità di prepararci, ovvero scegliere lo spettacolo che più ci piace, informarci sugli interpreti, sul testo, sull’autore o addirittura studiare l’opera stessa prima di vederla rappresentata in scena. C’è poi un’altra possibilità, ovvero quella di poter entrare in un teatro senza sapere cosa si stia effettivamente andando a vedere e come un grumo di creta intoccata, lasciare che le luci, la musica, la scenografia, gli attori, ci modellino nella mente uno spettacolo tutto nostro, fatto di suggestioni e privo quindi di pregiudizi, recensioni o interpretazioni altrui.

Più volte mi è capitato, per una ragione o per un’altra, di andare a teatro in questo modo, ma mai un regista era riuscito a lasciarmi in uno stato tale da non poter esprimere se effettivamente quello che avevo visto mi era piaciuto o meno. Per la prima volta infatti, quello che avevo visto e mi riferisco alle sole immagini, sembravano essere esclusivamente un mezzo attraverso il quale il regista, volesse assicurarsi di far arrivare allo spettatore pura verità e non l’interpretazione della stessa, unico modo probabilmente per far comprendere chi era il Marchese De Sade.

Ore 15.50, siamo arrivati a Prato e ci troviamo davanti ad un teatro chiuso. “Come? Lo spettacolo inizia alle 16:00!!!”. Telefoniamo subito ad un numero preso su Internet ed in breve ci dicono che abbiamo sbagliato teatro. Non possiamo perderci lo spettacolo dopo aver percorso 350 km per vederlo. Prendiamo la macchina e di corsa raggiungiamo il teatro “Il Fabbricone” nome che spiega esattamente cos’era in passato il capannone in cui stiamo entrando. Lo spettacolo è già iniziato.

Stranamente nessuno ci accompagna in sala e in un attimo ci troviamo completamente nel buio e come un’unica guida una luce fioca dal fondo, dove ora che siamo più vicini, si odono rumori a dir poco spettrali. Ci avviciniamo tenendoci per mano, perchè non si vede assolutamente niente, fin quando la luce fioca si rivela essere quella cupa ma viva di decine e decine di candele su candelabri e lampadari appesi al soffitto da catene lunghissime. Il tutto è inquietante, una scenografia minimale ma che copre una palcoscenico enorme. Scorgo due corpi di donne nude e poi un uomo elegante e sul fondo due figure con un lungo abito. Se non fosse stato per la certezza di essere entrati in un teatro, la suggestione che da subito mi ha trasmesso la scena mi avrebbe fatto esitare. Ci sediamo.

Lo spettacolo scorre lentissimo, perchè lenta è l’agonia e allo stesso tempo il piacere messo in scena. Tutto è così reale che mi disturbano i tecnici di suono e luci che estranei alla scena sono visibilmente presenti ai due lati del proscenio. La loro presenza distoglie la mia suggestione riportandomi alla consapevolezza che dietro quel che vedo ci sono degli attori, gli stessi che mettono in scena commedie o drammi. Ma è proprio così?

Durante le scene forti, tanta è la verità trasmessa dalle azioni, che mi viene naturale il domandarmi se in quel momento, quegli attori, stiano veramente mettendo in scena un personaggio o una realtà che gli appartiene. E più volte, allo stesso modo, tanta è la trasgressione, che mi chiedo quanto come attore sarei disposto a concedermi al pubblico, o meglio ancora ad offrire totalmente il mio corpo ad una scena simile.

Oggetto di scherno, abusi e violenze è un prete che per tutto lo spettacolo sconta i peccati della chiesa, colpevole di averci plagiato fin dalla nascita, di aver deciso per conto nostro cosa è bene e cosa è male. Il prete urla, si dimena, subisce e cerca con tutte le sue forze di evangelizzare, di spingere i suoi aguzzini a credere ancora una volta alla sua verità. Ciononostante i filosofi, al lato della scena, hanno una risposta chiara e inopinabile ad ogni ragione della loro vittima. Sono loro i veri carnefici ancor più dell’uomo elegante che con strumenti e con il suo stesso corpo perquote il prete.

Ascolto con molta attenzione il messaggio complesso ma chiaro del Marchese che in scena non c’è, ma che è ben presente nell’intera rappresentazione e mi accorgo che in quel momento, quello che ascolto mi turba molto di più di quello che vedo.

Quando lo spettacolo è ad un buon punto, mi rendo conto che non ha una trama, non ha una storia da raccontare ma è semplicemente la rappresentazione di un mondo in cui “l’oltraggio della natura ne rileva i suoi segreti”. Rimango affascinato da questa forma teatrale per me nuova e probabilmente nuova per lo stesso teatro.

Con l’unica scena visibilmente recitata finisce lo spettacolo. Troppi concetti, troppi per essere assorbiti in un’ora e mezza, sicuramente troppo pochi per convincermi ad accettare una logica “contra naturam” ma di certo sufficienti a metterla in discussione. Con grande fatica cerco di condividere il punto di vista del Marchese per capire quanto di quel che afferma è vero, ma puntualmente la mia logica o forse la mia morale, mi riportano a convincermi che è nel mio mondo la “normalità”… ma cos’è poi la “normalità”.

La felicità

Elisa: Papà sei triste?
Io: beh, si, un pochino
Elisa: non essere triste… pensa ad una cosa bella… pensa che siamo in giardino e giochiamo 1000 volte al gioco dell’oca… e vinci sempre tu!!!
Io: tvb Ely

Ci sono parole…

Ci sono parole che da sole dicono poco o anche niente ma se usate in un certo modo, se dette in un certo momento…

Sabato 14 aprile, ci svegliamo tardi, in programma abbiamo una festa di compleanno per bambini nel primo pomeriggio, così la mattinata passa da prima sul lettone, tutti insieme a giocare e poi continua oziando in casa, nell’attesa di arrivare al primo pomeriggio.

Finalmente usciamo da casa ed Elisa, come al solito, è euforica all’idea di andare ad una festa di compleanno. Arriviamo… ci sono tantissimi bambini, troppi bambini e come spesso capita quando l’ambiente è troppo “movimentato” la mia bambina trova difficoltà ad inserirsi… ehm… lei è una “principessa” e come tale ama la calma. Così in mezzo a quella marmaglia di bambini che urlano e si lanciano giocattoli, la vedo prendersi pochi dolcetti dal tavolo del buffet, sistemarli su un piattino di plastica, versarsi l’aranciata in un bicchiere di plastica e poi sedersi ad un tavolino, di plastica anch’esso.

Seduta la in mezzo mi fa un po tenerezza, mi piacerebbe andare lì ad abbracciarla, ma poi penso che è giusto viva la sua infanzia e trovi da sola il modo di cavarsela. Poco dopo, guardando di nuovo verso di lei, mi accorgo che ha fatto amicizia con un’altra bambina, calma, come lei e con lei siede sullo stesso tavolino di plastica di prima, chissà cosa si dicono.

Andiamo via dalla festa, è abbastanza tardi e abbiamo praticamente già cenato spizzicando sul tavolo del buffet. Non pienamente soddisfatto chiedo a Doriana di andare in qualche locale per mangiare ancora qualcosa. Doriana però è stanca e così mi viene l’idea di andare con Elisa a prendere un aperitivo. Lo facciamo spesso quando insieme torniamo a casa la sera: io da lavoro e lei dall’asilo. Elisa è contentissima.

Dopo aver lasciato la macchina in garage, a piedi raggiungiamo il locale dove di solito andiamo, è pieno di coppie e di ragazzi giovani. Con Elisa ci sediamo ad un tavolo e di colpo mi rendo conto che in quel momento siamo come lei e la sua amica alla festa… soli e diversi in mezzo a decine di persone.

Ordinata l’aranciata per lei e un cocktail per me, iniziamo a parlare di cose di poco conto. Il bello non è nella qualità delle cose che ci diciamo ma nella quantità, nel fatto che amiamo parlarci e comunicare. Poi a un certo punto come spesso faccio mi viene di chiedergli… “qual’è stato il momento più bello della tua giornata?” e lei senza pernsarci un attimo mi risponde: “questo”. A stento ho trattenuto l’emozione.

Ci sono parole che da sole dicono poco o anche niente ma se usate in un certo modo, se dette in un certo momento…

Quando io morirò

Quando io morirò

Cosa succede quando moriamo? Nessuno lo sa, nessuno sa cosa succede a noi, ma tutti sanno cosa succede da li in poi al mondo che lasciamo. E’ questione di anni ma sicuramente prima ci sarà una grande disperazione, poi magari mancanze, nostalgie e rimpianti, per arrivare a labili ricordi e finire inevitabilmente nel dimenticatoio assoluto. E’ li che moriamo veramente. Sarà solo l’ultimo ricordo nella testa delle persone a noi vicine a mantenerci ancora in vita. Magari il nostro amato, oppure i nostri figli o perchè no, qualcuno al quale morendo avremo fregato un sacco di soldi!

Quando io morirò… prima di andare in paradiso o all’inferno, mi piacerebbe restare per un po a guardare. Giusto il tempo di scoprire chi mi voleva bene veramente. Chi verserà lacrime sincere e chi invece perfidamente dirà qualcosa tipo “ce lo siamo levati dalle palle!”.

Quando io morirò… non venite al funerale se non vi va. Andate a farvi una bella mangiata di pesce e lasciate un calice di prosecco fresco per me sul tavolo.

Quando io morirò… spero abbiano inventato il disintegratore molecolare. Qualcosa che spingendo un bottone ti sbricioli. Così niente risvegli dentro la cassa, niente walking death e zombi vari!! Ma soprattutto niente tristi lapidi senza fiori al cimitero.

Quando io morirò… va bene pregare per me, ma non sarete voi purtroppo a cambiare le cose tra me e il Signore lassù. Se tutto andrà bene avrò un sacco di spiegazioni da dargli e magari facendomi l’occhiolino mi capirà.

Quando io morirò… spero abbiano abolito le “onoranze funebri” che “onorano” a suon di quattrini, spero invece che i funerali siano tutti uguali. Spero che in quel momento la differenza la facciano ancora la quantità di persone che ti volevano bene e non i fiori, le carrozze e le casse d’avorio. Quei soldi spendeteli in una bella festa, una festa in cui tutti vestiti nel modo più comodo e colorato che potete, vi incontrerete a parlate dei bei tempi, quelli che abbiamo avuto, quelli che ci hanno fatto conoscere, quella volta in cui ci siamo vergognati, o siamo stati ridicoli, o abbiamo fatto insieme qualche cazzata o magari quella volta che ci siamo sbellicati dalle risate. Poi non siate ipocriti, parlate pure dei miei difetti, di quanto ero rompi palle, noioso, pesante. Qualsiasi cosa direte sarà bello stare li ad ascoltarvi, sarà bello stare lì per l’ultima volta insieme.