(voce maschile fuori scena)
“Signori e signore della giuria… domandatevi… domandatevi pure…: come può una donna di tal esile statura, aver da sola compiuto un simile ‘lavoro’, così cruento e pur così faticoso. Come può aver fatto tutto questo in meno di mezz’ora? Perché tanto era il tempo che la domestica impiegava a tornare. Certamente signori, il figlio l’ha aiutata!”
(Pausa) Ancora ricordo la voce dell’avvocato dell’accusa, ancora ne odo il tono stride, ancora avverto l’odio, la rabbia irrefrenabile che dal fondo dello stomaco risaliva su e mi pervadeva i sensi, quella rabbia che provavo quando quel verme pronunciava il nome di Giuseppe mio figlio.
“Perché”, “il perché” si dovevano domandare e non il “come” (si blocca e ci riflette) o forse era meglio dire “per chi!”.
Ero una bambina debole e malaticcia, soffrivo di epilessia, ma i miei mi trattavano come un peso, non avevano per me le attenzioni che portavano invece agli altri figli.
Mio padre mi odiava perché ero la prova della sua colpa, mia madre mi odiava, perché non aveva desiderato la mia nascita. Ora a distanza di anni quasi la giustifico.
(Come rivolgendosi alla madre) “Mamma.. dev’essere stato orribile… essere una ragazza madre per via di uno stupro, ed ancora più orribile l’essere obbligata a sposare colui che ti aveva stuprata… ma che colpa ne avevo io? Io ero solo una bambina; troppo piccola per capire perché non mi volevi, troppo piccola per crescere con il continuo desiderio di morire.”
Ero per mia madre motivo di ricordo, come un bottone nero cucito sul suo petto a ricordare a lei e a gli altri il lutto della sua anima. Percepivo in lei un odio continuo. Guardandomi negli occhi, sono sicura che non vedesse me, ma lo sguardo di mio padre che nel frattempo se n’era anche andato via da casa.
Per tutti gli anni della mia adolescenza sono cresciuta in disparte, senza affetto o attenzioni; nell’ombra, invidiando i figli che mia madre ebbe risposandosi, ma quando finalmente fui maggiorenne, scappai di casa e mi sposai contro la sua volontà.
Da quel momento ho il ricordo di anni che sembravano passare felici e di una vita che sembrava offrirmi una nuova possibilità a riscatto di quella cupa e orribile che avevo vissuto. Insieme a mio marito iniziai una nuova attività: vendevo abiti usati e mi dedicavo ai lavori domestici. Tutti parlavano dei miei dolcetti, dei saponi e delle candele profumate che fabbricavo in casa. Poi un giorno arrivò uno sconosciuto e mi disse che mia madre era gravemente ammalata e che mi invocava al suo capezzale.
Al sentire quelle parole non provai dispiacere, tutt’altro, era un sottile piacere quello che provavo e non perché mia madre stesse morendo, ma per il fatto che mi aveva pensato in punto di morte, che per la prima volta chiedeva di me, aveva bisogno di me.
Quando arrivai in quella casa e ne risentii l’odore, lo stomaco si contrise e d’improvviso fù come tornare indietro nel tempo, fù come sentirmi di nuovo bambina. Rimasi pietrificata. Entrai nella sua stanza e la trovai la, distesa sul suo letto, attorniata da tutti gli altri figli.
Non dimenticherò mai quell’ultimo incontro, non dimenticherò mai quegli occhi e quell’espressione che di colpo trasformò il suo volto quando mi vide. Sono sicura! anche in quell’occasione non vide me, ancora una volta vide mio padre… ma quelle parole… quelle le disse a me, segnando tutta la mia vita: “Maledetta tu e tutta la tua prole!…nessun tuo figlio ti sopravviverà”.
Uscii da quella stanza turbata, se per ventuno anni avevo sopportato inerme le sue parole affilate come pugnali, ora aveva toccato qualcosa che non mi riguardava direttamente, ma che era l’unica cosa che aveva dato un valido motivo alla mia inutile vita.
Negli anni a venire ho avuto 13 gravidanze, ed uno dopo l’altro ho visto morire i miei figli in tenera età, inerme, impotente e con l’assoluta convinzione che mia madre e la sua maledizione, anche da morta, stava distruggendo di nuovo la mia vita. La sognavo, ogni notte, mentre mi guardava con quegli occhi pieni di sangue e d’odio e poi scoppiava in una lunga e beffarda risata, come a schernire il lutto dei figli che mano a mano perdevo.
Solo un figlio sembrava essere immune a quella maledizione: il mio adorato Giuseppe. In quegli anni mi dedicai alla cartomanzia, all’occulto e a tutto quanto potessi studiare per contrastare quel maleficio, per proteggere il mio amato figlio Giuseppe. Così, al mio negozio di abiti usati, affiancai anche il lavoro di cartomante. Sentire i problemi degli altri, aiutarli, anche se con bugie e false promesse, mi allontanò per un po di tempo da quell’ossessione, dalla paura continua di perdere mio figlio.
Una notte, feci ancora il mio sogno ricorrente, questa volta però c’era una donna che mi dava le spalle, ma non sembrava mia madre, quando si voltò, con mio stupore, vidi che era una bellissima donna che aveva però tra le braccia un bambino nero. Quella donna mi spiegò come avrei potuto salvare Giuseppe: “Se vuoi salvare tuo figlio dovrai fare dei sacrifici umani!” mi disse. I miei incubi erano finiti, finalmente quel sogno mi stava svelando in che modo mi sarei liberata dalla maledizione, in che modo avrei protetto per sempre mio figlio.
(Come rivolgendosi all’avvocato) “Tu avvocato! si tu! Perchè mi giudichi con tanto orrore? sei sicuro che tua moglie non avrebbe fatto la stessa cosa, sei sicuro che non avrebbe ammazzato chiunque, perfino te, pur di veder salvo il suo ultimo figlio?”
Non mi fù difficile trovare la persona da sacrificare, il mio lavoro o meglio il mio secondo lavoro di cartomante, mi aveva fatto conoscere tantissime donne sole e il fatto che si fidavano cecamente di me, anzi si affidavano totalmente a me, rendeva tutto molto più semplice. Così aspettai pazientemente che la mia vittima, il sacrificio umano, venisse sola a casa mia, come di solito facevano le mie clienti, quando senza appuntamento venivano a farsi leggere le carte.
Insomma, non fui io a scegliere la vittima, lasciai fare al destino, aspettai che lei stessa decidesse quando e come venire da me, dovevo solo stare attenta alla presenza in casa di Giuseppe e della donna delle pulizie, ma per entrambi avevo già pronto un sistema per farli allontanare almeno per mezz’ora.
La mattina del giorno in cui feci il sogno rivelatore, si presentarono tutte le condizioni a mio favore. Giuseppe era andato a fare le commissioni in paese e a Lina, la domestica, chiesi di andarmi ad imbucare una lettera e glielo chiesi proprio nel momento in cui vidi Ester, una signora che almeno una volta la settimana si faceva leggere le carte, che imboccava il vialetto di casa mia.
(Come rivolgendosi all’avvocato) “Probabilmente tu avvocato penserai che in quel momento ero eccitata, o mi immaginerai come un lupo che accoglieva la sua preda nella tana, pronto a sbranarla, ma non era così, dovevo solo ucciderla, del resto non me ne importava niente.”
Quando la donna si sedette per farsi leggere le carte, ansiosa di sentire quello che di li a poco le avrei rivelato, le chiesi di aspettare un minuto e con una scusa banale andai in cucina a prendere una scure che avevo preparato per l’occasione. Ci volle poco, non si accorse di niente, non avrebbe mai potuto accorgersene. Da dietro, senza nemmeno darle il tempo di voltarsi, le sferrai un colpo forte e deciso sulla nuca che anche se non riuscì a tagliarle di netto la testa, gliela fece cadere in avanti a penzoloni lasciandola priva di vita. Feci tutto in fretta ma con cura, fredda, con un unico pensiero nella testa: salvare mio figlio Giuseppe.
(Come rivolgendosi alla signora Ester) Cara Ester, non te la devi prendere a male, non sono stata io a sceglierti, il tuo destino ha scelto per te. Non è colpa degli alberi se quando cadono travolgono le persone che vi si trovano sotto; è colpa piuttosto del destino di costoro che malauguratamente li ha fatti passare di lì.
Dovevo sbrigarmi, di li a poco sarebbe tornata la domestica. Smembrai il corpo e gettai i pezzi in una pentola che già tenevo pronta sul fuoco, aggiunsi 7 chili di soda caustica che avevo comprato per fare il sapone, rimescolai il tutto finché il corpo sezionato si sciolse in una poltiglia scura e vischiosa con la quale riempii alcuni secchi che vuotai in un vicino pozzo nero. Quanto al sangue, aspettai che coagulasse, lo feci attaccare al forno, lo macinai e lo mescolai con farina, zucchero, cioccolato, latte e uova, poi aggiunsi un pò di margarina, impastando il tutto. Feci una grande quantità di pasticcini croccanti e li servii alle signore in visita, ma ne mangiammo anche Giuseppe ed io.
Il sacrificio era fatto, ed io mi sentivo sollevata e non perché temevo di non farcela, ma perché finalmente avevo potuto fare qualcosa contro mia madre e la sua maledizione. Quella notte andai a letto più tranquilla del solito, convinta che i miei incubi erano finiti ma mi sbagliavo, di nuovo quella donna mi apparve in sogno e ancora una volta mi chiese un sacrificio.
Furono numerosi i sacrifici che dovetti fare, fino a quando una notte quella donna mi disse che quello sarebbe stato l’ultimo sacrificio, quello che per sempre avrebbe liberato mio figlio dalla maledizione. La mattina dopo mi appostai in cucina nell’attesa di una delle mie clienti e aspettai tutto il giorno.
Virginia, così si chiamava l’ultimo sacrificio e anche lei finì nel pentolone come le altre, ma a differenza delle altre, la sua carne era grassa e bianca. Quando finii di discioglierla, aggiunsi un flacone di colonia e dopo una lunga bollitura, ne ricavai delle belle e profumate saponette e anche candele. Le diedi in omaggio ai vicini e ai clienti. Quella donna era veramente molto dolce.
(Come rivolgendosi all’avvocato) D’accordo avvocato, non sono stata abbastanza furba, forse non avrei dovuto vendere i loro abiti nel mio negozio, ma il mio obiettivo ora era raggiunto, ero riuscita a fare il mio ultimo sacrificio prima di essere presa.
Ancora ricordo quella sensazione, la sensazione che si ha nell’impazzire di rabbia e perdere il senno, la ragione, il controllo dei proprio sentimenti, del proprio corpo, di tutto. Non avevano arrestato solo me, ma anche il mio Giuseppe e questo non potevo sopportarlo.
I poliziotti, l’avvocato dell’accusa, il giudice, tutti erano convinti che una donna come me non avrebbe mai potuto da sola compiere quegli omicidi. Tutti se ne convinsero quando udirono le parole di Lina, la domestica che confermò senza nessun dubbio che le sue assenze da casa non duravano più di mezz’ora.
Ancora ricordo le loro facce, stupite, poi inorridite, ma alla fine vittime di una curiosità morbosa che li convinse ad accettare la mia proposta.
(Come rivolgendosi al giudice) “Signor giudice… la prego di ascoltarmi… siete tutti convinti che mio figlio Giuseppe è stato mio complice, per il solo fatto che una donna come me non potrebbe mai in mezz’ora uccidere e far sparire un corpo…perchè allora non mi mettete alla prova? vi faccio vedere io come ho fatto!”
Ancora ricordo le loro facce, schifate all’entrare del corpo morto di quel vagabondo, ma di nuovo vittime di una curiosità morbosa che li spinse a continuare, anche quando, pochi minuti dopo, impugnai di nuovo la scure e senza incertezze ripetei il mio macabro lavoro davanti ai loro occhi.
Nella sala, un silenzio austero si rompeva solo al rumore dei colpi che con la scure vibravo su quel corpo inerme, uno dopo l’altro, precisi, senza essere né troppo deboli né troppo forti. Smembrai quel corpo, lo sciolsi in un pentolone con la soda caustica e feci sparire ogni traccia, voltandomi subito dopo verso il mio pubblico silenzioso.
Ancora ricordo le loro facce, sembravano impaurite e non so se era per lo spettacolo che avevano visto, o per il fatto che il cancelliere fermò il suo orologio e disse ad alta voce:
“12 minuti signor giudice”.